Connect with us

Trent’anni fa, Il Dipendente avvertì: il lavoro ci distruggerà

workers

2026-03-14 20:17:12

Sono passati trent’anni. Era il 1995 e si viveva in modo diverso, soprattutto il mondo del lavoro era un altro: niente smartphone, niente internet, niente mail in arrivo a mezzanotte a cui rispondere entro un minuto. Eppure, in quell’epoca pre-digitale,

Sebastiano Nata

aveva già capito tutto:

il potere seduce, il lavoro consuma e l’ambizione, se cieca, può diventare una prigione

. Oggi, a trent’anni dalla pubblicazione,



Il dipendente

” (Feltrinelli)

è tornato in libreria. Nata, ospite del nostro vodcast
“Il Piacere della Lettura”
, ne ha parlato con lucidità, ironia e un filo di malinconia.

Il protagonista,

Michele Garbo

, è un giovane manager in caduta libera, invischiato in un’ossessione per la carriera che cancella tutto il resto: affetti, tempo, identità. È un uomo che ha creduto nel mito del successo e si è ritrovato dipendente – non solo di un’azienda. Dipendente dal giudizio del capo, dai criteri di performance, da un’idea tossica di sé.

La voce di Nata, durante l’intervista, è calma e netta.

Oggi è anche peggio

, dice: “siamo sempre sotto i riflettori, non esistono più margini di libertà, neppure in missione. Se ti arriva un messaggio, devi rispondere. Subito. È la performance continua.”

E se il contesto storico è cambiato (nel 1995 c’erano Mani Pulite e la guerra in Bosnia, non Gaza o l’Ucraina),

le dinamiche di potere restano

. Così come l’illusione che salire la scala gerarchica equivalga a contare qualcosa. Michele Garbo non comanda nessuno, ma si sente un manager. E si comporta come tale: cerca di mostrarsi vincente, nasconde la fragilità e implode.

“Dietro i vetri specchiati degli uffici, ci sono spesso inferni individuali”, dice Nata. E quei vetri oggi non sono più solo architettonici: sono gli schermi dei telefoni, le vetrine dei social, i filtri con cui raccontiamo – o ci illudiamo di raccontare – il nostro successo.


Ma “Il dipendente” non è solo un romanzo sul lavoro

. È una riflessione più ampia sulla dipendenza emotiva da un modello di vita, da un ideale di potere maschile, da una narrazione tossica del successo.

Anche oggi il libro ci restituisce un protagonista disturbante, sciatto, persino volgare, umano. “Non potrei più scrivere così”, ammette Nata. Il linguaggio di Michele Garbo è sessista, razzista, irrispettoso. Eppure, dietro, c’è un uomo solo. E questo è il paradosso letterario: più si scava nel buio, più si comprende.

“Voleva chiamare la figlia, Maria”, ricorda l’autore. “Ma non lo fa. Solo una volta parla con lei. Ed è lei a chiamarlo.” In quell’unico gesto d’amore non cercato, c’è tutta la tragedia di un uomo sedotto dal potere e tradito da se stesso. Un uomo che scopre troppo tardi che la vera promozione era essere presente. Con la testa. Con il cuore.


“Il Dipendente”, nonostante la sua età, è un romanzo vivo

, e lo sarà finché continueremo a confondere il valore con il profitto, la carriera con l’identità. Leggerlo oggi è come guardarsi in uno specchio deformante. Molti di noi sono Michele Garbo – o lo sono stati almeno una volta nella vita -, e difficilmente si capisce che l’unica via d’uscita sarebbe quella di chiamare Maria.


Trent’anni dopo, forse il mondo è cambiato. Ma la vera domanda resta: siamo cambiati noi?

Click to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *