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From Stéphane Rolland to Ronald van der Kemp, the Day’s Haute Couture

moda e stile

2025-10-29 02:18:27

Composto in pochi mesi nell’estate del 1928, il

Boléro

di Maurice Ravel nacque come
musica da balletto
, commissionatogli dalla ballerina Ida Rubinštejn, prima di diventare celebre come brano da concerto. Ravel fu ispirato da un tema melodico che aveva ascoltato durante un viaggio nei Pirenei spagnoli, e il ritmo incalzante e la matematica perfezione della struttura formale della sua composizione si discostano dal folklore dell’originale danza popolare iberica, avvicinandosi ai toni di una vicissitudine artistica, e quindi dichiaratamente poetica, che ne ha fatto un’opera avanguardista, capace di superare la prova del tempo. Al

Boléro

di Ravel, al suo crescendo ipnotico di sensualità, si è ispirato Stéphane Rolland per la collezione Haute Couture autunno-inverno 2025/2026 della sua maison. In un trionfo di forma, suono e movimento, il couturier ha trasformato la leggendaria composizione in una sinfonia di sculture algide e sartoriali, scegliendo di sfilare non in un luogo casuale, ma proprio sul palco del Théâtre des Champs-Élysées, dove fu tenuta a debutto dalla divina Rubinštejn.

Non una semplice collezione, ma un’opera d’arte totale che ha unito moda e musica in una performance dal respiro epico, già tra i momenti memorabili di questa
settimana parigina dedicata alla Couture
, guidata live dalla bacchetta della carismatica direttrice d’orchestra Zahia Ziouani. Lo stesso Rolland non ha fatto mistero dell’ambizione e della fatica dietro la realizzazione di quello che chiamare défilé sarebbe riduttivo. Piuttosto, si tratta della trasposizione tecnica e poetica di un sogno d’infanzia dello stilista, ispirato dalla sensualità della musa Ida Rubinštejn e dalla precisione ritmica di Ravel, che ha preso vita dopo diciotto mesi di preparazione minuziosa. Tra metronomi e macchine da cucire, le modelle hanno mosso i primi passi avvolte in drappeggi grafici di crêpe e raso, note tessili scolpite come semiminime e semicrome. Poi ecco aprirsi il sipario sull’orchestra dal vivo, cuore pulsante della sfilata, chiamata ad accompagnare l’incedere di look sempre più audaci e maestosi in un crescendo di pathos.


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Ecco i cappotti da matador, le tute dalle linee architettoniche e dagli spacchi sensuali, i corpetti gioiello che sembrano realizzati in foglia d’oro e gli abiti scultura che avvolgono il corpo in volute di raso e organza che sfidano la forza di gravità, dando espressione a un dialogo ricco di tensione tra il rigore dell’atto creativo e il languore della femminilità, del corpo che indossa e vivifica i capi, dove ogni gesto, piega e silhouette diventa battuta visiva. Rastremata a pochi, significativi colori la palette, secondo
quello che sembra già un trend di questa tornata di collezioni invernali
: qui sono il nero, il bianco, il rosso e l’oro a parlare la lingua del dramma, della passione e dell’estasi creativa. Anche le forme di copricapi e acconciature sembrano migrare da uno spartito musicale, evocando le note del pentagramma con un’inflessione giapponese, che imita i copricapi delle
geishe
di un tempo, mentre i volumi si gonfiano e ritraggono come un’orchestra in pieno slancio emotivo.

E che cos’è una sinfonia se non l’unione armoniosa di elementi tra loro diversi? Sulla passerella di RVDK Ronald Van Der Kemp il concetto trova espressione attraverso la pratica dell’upcycling, che acquista consistenza nelle costruzioni tipiche della maison — spalle potenti, vita segnata e tagli affilati — che danno forma alla collezione

Wardrobe #22

. Nelle mani dello stilista olandese, la
sostenibilità
si intreccia con l’eccellenza del
lavoro d’atelier
e con il tema della foresta pluviale, della sua flora e fauna rigogliose, che non scivola mai nel costume. Ogni tessuto ri-nasce dall’eccesso di qualcun altro, siano essi stock di lusso o stoffe appartenute alle amiche del designer, e diventa parte di un paesaggio da sogno verdeggiante che si nutre del dialogo con ricami frutto di micro collaborazioni con artigiani indigeni brasiliani e maglieristi inglesi. Cappotti di corteccia d’albero spuntano da strati di chiffon, un cardigan oversize e coloratissimo ondeggia con dolcezza e spavalderia, i capi sartoriali ricordano il guscio lucido di un insetto, a dimostrare che i materiali di scarto possono rivaleggiare con quelli nuovi se guidati da un’immaginazione che non conosce confini.

Tra le altre sfilate della
seconda giornata di Haute Couture
, la stilista cordobana Juana Martín ha portato in scena la collezione

Fervor

, ispirata al fervore religioso come una delle tradizioni più radicate nella natìa Andalusia. Martín, unica donna spagnola ad aver avuto finora accesso all’istituzione parigina, preceduta solo da Cristóbal Balenciaga e
Paco Rabanne
— una pietra miliare nella storia della moda spagnola, riconosciutale quest’anno con la Medaglia d’oro al Merito nelle Belle Arti — lo interpreta come un’espressione collettiva di fede con una forte identità culturale. In un’ideale processione della Settimana Santa, piogge di petali, simboli religiosi e citazioni da immagini sacre compongono un crescendo che, pur nell’aura di sacralità a volte letterale, non è troppo distante dalle atmosfere profane e sensuali del balletto interpretato per la prima volta da Ida Rubinštejn sulle note di Ravel nel 1928. Immersa nel ruán nero, il tessuto utilizzato per la creazione dei “nazarenos” o “penitenti”, riconoscibili per le lunghe vesti e i cappucci a punta, la collezione non rinuncia infatti a una vena esplicitamente sensuale, tra spacchi, trasparenze e un uso disinibito del pizzo che sembra coprire solo per accendere il desiderio.

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