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Può un dipendente essere licenziato per lavorare meno?

notizia

2026-03-19 05:18:36

L’ordinanza della Suprema Corte conferma la legittimità del licenziamento di una lavoratrice part-time che ha negato il passaggio al full-time

Il rifiuto di un lavoratore di aumentare le proprie ore di servizio può, in determinate circostanze, portare al licenziamento. A fare chiarezza su una questione spinosa e potenzialmente di grande impatto per molte realtà aziendali è l’ordinanza n. 9901/2025 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha infatti confermato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente part-time che aveva negato il passaggio a un impegno a tempo pieno. La ricorrente aveva impugnato il licenziamento, sostenendo la sua ingiustizia in base al principio legale che impedisce il licenziamento di lavoratori che rifiutano una diversa organizzazione dell’orario di lavoro. Nonostante ciò, la Cassazione ha ritenuto il licenziamento legittimo, in virtù della comprovata necessità dell’azienda di riorganizzare l’orario e dell’impossibilità di adempiere all’obbligo di repêchage (ovvero la ricollocazione del dipendente in un’altra posizione compatibile). Secondo la normativa vigente, il lavoratore ha il diritto di scegliere se prestare o meno lavoro straordinario, senza poter essere obbligato dal datore di lavoro. Più in generale, nessun dipendente è tenuto ad accettare modifiche dell’orario lavorativo – diverse da quanto previsto nel contratto – proposte dall’azienda. Il rifiuto, sia che riguardi ore aggiuntive sia una diversa suddivisione del monte ore complessivo, non può essere considerato, di per sé, un giustificato motivo di licenziamento. Questo principio è ribadito dall’articolo 6 del D.lgs. 81/2015 – attuativo del Jobs Act – che sancisce la possibilità di negare lo svolgimento di lavoro supplementare richiesto, purché motivato. Inoltre, le sole necessità di maggiori ore lavorative per finalità organizzative e gestionali non costituiscono, da sole, un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Quest’ultimo è legittimo soltanto se ha un nesso causale diretto con la riorganizzazione aziendale, al netto del ripescaggio e degli altri obblighi contrattuali. Per comprendere il principio espresso dagli Ermellini, è necessario addentrarsi nella specifica vicenda. La lavoratrice protagonista della causa, dipendente part-time, è stata licenziata per giustificato motivo oggettivo dopo aver rifiutato di passare a un contratto di lavoro full-time. Il datore di lavoro è riuscito a dimostrare, nei vari gradi di giudizio, l’obiettiva necessità di aumentare le ore del personale a causa di un incremento del carico di lavoro. L’azienda ha, quindi, proposto alla lavoratrice di passare a un impiego a tempo pieno, ritenendo che questo cambiamento avrebbe garantito un’efficiente organizzazione aziendale. L’alternativa sarebbe stata ricorrere largamente al lavoro straordinario di tutto il personale, opzione che presentava limiti legati alle possibilità individuali, ai costi elevati e, soprattutto, alle competenze specifiche della dipendente. Quest’ultima, infatti, svolgeva mansioni molto tecniche, il che ha impedito all’azienda di assegnarla ad altri ruoli. Non essendoci neanche diverse posizioni che la lavoratrice potesse ricoprire, proprio in virtù di un’organizzazione aziendale rigida e ben definita, e non potendo attuare il repêchage, l’unica soluzione per l’azienda si è rivelata sostituire la lavoratrice dopo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Come ribadito dalla Cassazione, il lavoratore che rifiuta di lavorare più ore su richiesta del datore può essere licenziato solo se sussistono congiuntamente le seguenti condizioni: La richiesta è legittima e non supera l’orario massimo di lavoro previsto. Non esiste un’articolazione oraria alternativa per far fronte alle esigenze organizzative, le quali devono essere debitamente comprovate dall’azienda. Vi è l’impossibilità di ricollocare il dipendente (obbligo di repêchage) in altre posizioni compatibili all’interno dell’azienda. In altri termini, se il passaggio al full-time o l’aumento delle ore è l’unica soluzione per conservare il posto di lavoro, viste le impellenti necessità dell’azienda e l’assenza di altre mansioni disponibili, il rifiuto del dipendente può giustificare il licenziamento. Quest’ultimo, in ogni caso, deve avvenire rispettando i criteri imposti dalla legge e dalla contrattazione, sia individuale che collettiva, secondo i principi di buona fede e correttezza. Questo chiarimento della Cassazione fornisce un importante precedente per datore e lavoratore, delineando i confini entro cui la flessibilità richiesta dall’azienda può avere conseguenze sul rapporto di lavoro.

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